PostCovid19: ne usciremo davvero migliori? Quali saranno i provvedimenti più urgenti per il Governo quando saremo ripartiti? Quanto la pandemia sta agendo sulla tenuta sociale del Paese? Ci saranno maggiori divisioni tra Nord e Sud, nella Penisola, ma anche fuori dai confini nazionali
L’abbiamo chiesto a Marco Damiani (46 anni, di Spello), ricercatore in Sociologia politica presso il Dipartimento di Scienze Politiche all’Università di Perugia, autore di un libro pubblicato di recente da Routledge dal titolo: Populist radical left parties in western Europe.
Professore, partiamo dall’ultimo punto. Il virus sta rafforzando la distanza tra Nord e Sud nel nostro Paese?
Come ha scritto il Professore Roberto Segatori, in un articolo pubblicato sul Corriere dell’Umbria il 21 aprile, in Italia per la prima volta nella storia post-unitaria si pone una questione settentrionale. In particolare, la Lombardia, vera locomotiva d’Italia e regione tra le più ricche d’Europa – finora forte del suo modello di sviluppo economico e dell’efficienza ed efficacia dell’apparato politico-amministrativo – versa in una condizione oggettivamente diversa sia rispetto al resto del Paese sia rispetto al resto delle regioni del Nord Italia. Viste da lontano, le ragioni che hanno determinato le sorti del caso Lombardia sono molteplici, e sarebbe inutile rievocarle in questa circostanza. Già molte volte, e con interpretazioni e sfumature diverse, si è fatto ampio ricorso nei giorni scorsi. Quel che mi pare chiaro, però, è che il combinato disposto degli effetti della scelta privatistica, adottata anche in campo sanitario, e la forte spinta verso i processi performativi iper-individualistici abbia contribuito a generare condizioni di fragilità che hanno consentito una più facile e veloce penetrazione del virus. Altro esempio, profondamente diverso, è il Veneto. In questo caso, nonostante la vocazione altamente industriale, e il network delle relazioni d’incontro costruito attorno agli scambi economici e commerciali, la diversa tradizione storica della regione, fondata su una diffusa cultura solidale di stampo cattolico e sull’eredità della subcultura bianca – o ciò che resta- ha permesso il mantenimento di una struttura sociale a maglie strette, che ha saputo rispondere molto meglio all’attacco del covid-19. Poi ci sono, va da sé, le scelte politiche. Su questo punto, però, con riferimento alle responsabilità personali e all’accertamento delle regolarità giudiziarie, io lascerei lavorare le autorità competenti, nella speranza che le inchieste già avviate – e quelle che dovessero, eventualmente, avviarsi- possano risolversi nel più breve tempo possibile. Per quel che mi riguarda, allo stato attuale dei fatti, mi verrebbe da dire: Siamo tutti lombardi! Personalmente, appena mi sarà data l’opportunità, vorrò organizzare tra le mura della città di Bergamo la mia prima uscita fuoriporta.
Il Covid19 ci sta costringendo a cambiare: stiamo sperimentando già ora, per esempio, il ricorso al lavoro agile, abbiamo capito che alzare muri non serve a combattere la pandemia perché siamo tutti nella stessa barca e pare sia cambiata la considerazione nei confronti della scienza. Sono considerabili effetti positivi e basteranno a farci migliori? Cosa dovremmo ancora augurarci?
Sicuramente, gli effetti della pandemia ci costringeranno a riorganizzare molte delle nostre abitudini, lo stile di vita, le modalità di funzionamento della società di massa e – forse – la struttura del modello di sviluppo economico. Se da questi cambiamenti si potrà uscire migliori o peggiori di prima dipenderà soltanto dalla somma di molteplici condizioni: dal tempo di esposizione al virus, dalla perdurata necessità del distanziamento sociale – e misure conseguenti – e dalle ricadute pratiche che potranno registrarsi nei prossimi mesi sul tessuto economico e sociale delle nostre città e sull’organizzazione della vita quotidiana. Di certo, i rischi di una regressione sono forti, soprattutto se gli effetti della crisi economica, con importanti ricadute occupazionali e nel sistema di produzione industriale, determineranno forti ripercussioni in termini di prodotto interno lordo e di ricchezza pro-capite. Ci sarà una riduzione dei posti di lavoro. Al momento, quel che sembra possibile intravedere è una rifunzionalizzazione dello Stato, che secondo gli osservatori più ottimisti potrebbe significare – in automatico – un rafforzamento del ruolo del welfare e del settore pubblico, ma anche qui l’equilibrio che potrà determinarsi dipenderà soltanto dai rapporti di forza tra le forze in campo. Tornando al calo delle unità lavorative e quindi all’aumento della povertà, non dimentichiamo che molti Paesi europei, e in particolare quelli dell’Europa meridionale, sono chiamati ad affrontare due crisi economiche in una volta sola, perché gli effetti della crisi del 2008 – non certo esauriti – si andranno a sommare agli esiti prodotti dalla crisi-covid. In Italia e in alcuni Stati europei più di altri esistono pregresse e preoccupanti condizioni di diseguaglianza economica e sociale, che producono effetti diretti anche in termini di strutturazione dell’offerta politica. Se queste non saranno arrestate, per esempio, attraverso esplicite e coraggiose scelte d’investimento sul modello delle politiche neo-keynesiane, potrebbero destare un serio allarme anche in termini democratici. Da questo punto di vista, mi permetto di sottolineare il ruolo critico dell’Unione europea, che – al pari di quanto già registrato in materie economica nei mesi e negli anni più intensi della crisi pregressa, e per quel che concerne la questione immigrazione e successivi problemi di gestione e governo dei flussi migratori – finora ha svolto un compito sostanzialmente insufficiente, che non consente di implementare politiche pubbliche condivise all’interno dei propri confini. Staremo a vedere se nelle settimane e nei mesi successivi potrà aprirsi una fase nuova, capace di prefigurare rilevanti cambiamenti di scenario. Al momento, a me pare di notare una dinamica di conflitto politico organizzata prevalentemente su scala nazionale, che favorisce alcuni Stati a discapito di altri, con il complesso delle istituzioni sovranazionali essenzialmente impossibilitate a svolgere sul piano della realpolitik un ruolo preminente di tipo regolatore.
Tra un possibile aumento dei nazionalismi, una perdita di centralità del Parlamento, una maggiore statalizzazione, qual è il rischio che teme di più per il futuro?
Dal lato politico, a mio avviso, il rischio di crisi che corrono le democrazie contemporanee è determinato dalla mancanza di progettualità. L’articolazione degli interessi nazionali è sempre prevalentemente proiettata sul breve o brevissimo periodo, in una condizione di campagna elettorale permanente che porta a un’estrema competitività in campo elettorale tra partiti di schieramenti avversi, ma anche tra i partiti dello stesso schieramento. Tutto questo scoraggia la costruzione di un processo decisionale fondato su scelte strategiche di lungo periodo, favorendo processi tattici di breve respiro e scelte dettate prevalentemente dal perseguimento dell’interesse contingente. In questo contesto, il rischio è quello di frazionare l’interesse pubblico in tante minuscole parti in lotta fra loro, che – direttamente o indirettamente – possono accelerare la formazione di regimi politici post- democratici. Da questo punto di vista, il caso ungherese costituisce un caso studio molto interessante, che nel cuore dell’Europa dovrebbe destare particolare preoccupazione alle classi dirigenti dei diversi Paesi dell’Unione.
Crede che con il Covid19 ci saranno effetti negativi sulla tenuta sociale?
Quanto agli effetti sociali, a mio avviso, il rischio è quello di incrementare il senso di solitudine e paura già ampiamente diffuso tra i cittadini europei, e non solo, anche in età pre-covid, che – date le condizioni imposte dal distanziamento sociale – potrebbe accrescere l’isolamento e la sfiducia delle e tra le persone, amplificando la distanza percepita tra l’interesse pubblico e gli interessi individuali. In queste settimane abbiamo dovuto modificare profondamente le nostre abitudini, restando chiusi in casa, annullando i rapporti interpersonali, senza poter salutare e stringere la mano ad amici, parenti e conoscenti, e dovendo necessariamente adottare atteggiamenti dettati dalla legittima difesa personale, che ci consigliavano in alcuni casi anche inconsapevolmente di arrivare a cambiare marciapiede quando nelle città, nei paesi, nelle piazze e nelle strade ci è capitato d’incontrare la sagoma delle poche persone che si spostavano per adempiere ai propri bisogni essenziali. Se non si riuscirà a trovare presto un vaccino e se queste eccezionali, ancorché necessarie, misure di sanità pubblica dovessero prolungarsi nel tempo, cambiando le abitudini e le nostre consuetudini sociali, la paura del contagio potrebbe aumentare la distanza tra le persone. Rispetto alla sua domanda, tutto ciò rischia di avere effetti critici rilevanti, che se permanenti nel lungo periodo potrebbero anche mettere in crisi la tenuta delle comunità politiche nelle quali viviamo.
Ultima curiosità: si dice spesso che potremmo farcela con una maggiore compattezza, a livello nazionale e fuori dai confini nazionali. Nel primo caso vede come salvifico in fase due un governo di unità nazionale o tutto sommato quello che abbiamo sta reggendo bene?
I livelli nazionale e sovranazionale restano fortemente intrecciati. Tuttavia, a me pare di osservare che sia venuto a definitiva maturazione un problema già evidente in passato. Mi riferisco al lungo e complesso processo di formazione dell’opinione pubblica europea, che secondo i più ottimisti avrebbe potuto e dovuto determinare la crescita di una soggettività politica sovranazionale, da mettere in campo accanto a quella nazionale – o, per i più radicali, al posto di essa, per l’effettiva costruzione politica dell’Unione. Tuttavia, gli effetti dispiegati al riguardo in piena emergenza covid farebbero pensare all’esatto contrario, prefigurando il brusco arresto del processo in corso, che tante difficoltà aveva mostrato anche in passato. Parafrasando il noto adagio di Massimo d’Azeglio, potremmo dire che fatta l’Europa sarebbe arrivato il momento di fare gli europei, ma il processo di unificazione culturale, linguistico, religioso e identitario appare oggi più difficile che mai.
In futuro qualcuno teme che l’Italia esca dall’orbita europea per entrare in quella cinese.
Nelle relazioni diplomatiche tra gli Stati, un conto è essere amici, soprattutto in ambito economico e per gli scambi commerciali, altra cosa è essere alleati. Costruire e rafforzare il rapporto di amicizia con la Cina credo sia un obiettivo abbastanza semplice e ampiamente condiviso. Per quel che concerne, invece, la costruzione di una alleanza politica, io credo che – allo stato attuale – non esistano le condizioni reali per poterne discutere.