Sergio Scamuzzi, Università di Torino
Pietro Rossi, storico della filosofia e studioso dello storicismo tedesco, ha avuto un ruolo determinante nel reingresso della sociologia nelle università italiane nel dopoguerra e nella sua affermazione e istituzionalizzazione a pieno titolo come disciplina accademica nel migliore senso del termine: un disciplina scientifica, con una tradizione, con modalità istituzionalizzate di presentazione di sé alla comunità scientifica e al pubblico, di formazione e trasmissione a generazioni successive, riconosciuta e riconoscibile. Le prime generazioni dei sociologi italiani gli devono infatti la traduzione e pubblicazione in italiano delle opere di Max Weber e profondi studi su di esse reiterati nel corso di tutta la sua lunga vita (1930-2023) – ricordiamo la tappa principale in Max Weber. Oltre lo storicismo (1988) e la più recente raccolta Max Weber. Una idea di Occidente (2007) – e la direzione della collana di Comunità che ha pubblicato tutti i principali classici della disciplina. Ma gli devono anche partecipazione e sostegno ai primi sviluppi e crisi della disciplina negli anni ‘60, testimoniati in Ricerca sociologica e ruolo del sociologo, a sua cura (1972) , ben più che atti di un convegno fondativo e di svolta. Per alcuni più giovani sociologi dell’epoca la pubblicazione nella collana Scienze sociali Loescher da lui allora diretta di un’antologia su di un grande tema della sociologia è stata una sorta di rito di iniziazione e passaggio, di grande valore formativo alle buone pratiche della ricerca accademica: ampiezza e rilevanza degli studi conosciuti, rigore filologico e concettuale nella costruzione del testo e nella sua scrittura erano da lui richiesti con severità di Maestro al giovane collaboratore.
Pietro Rossi coltivò contemporaneamente nel corso degli anni un’attività di autore di studi sociologici nel campo della sociologia storica, comparativa e internazionale, oggi diremmo globale; un’attività di direzione, condotta con impegno e partecipazione, di ricerche importanti in questo campo: ricordiamo ad esempio Modelli di città (1987), La storia comparata (1990), quattro studi sulla questione dell’identità europea (2007, 2009, 2015,2017), gli attualissimi e recenti saggi sul ‘lavoro senza valore’ e su ‘popolo e plebe’(in Il Mulino, 2019, 2 e 2021,3); un’ attività di organizzatore della cultura e della ricerca che lo ha visto protagonista in istituti culturali come l’Accademia dei Lincei e soprattutto l’amata Accademia delle Scienze di Torino, presieduta dal 2009, nel comitato di direzione della Enciclopedia delle scienze sociali della Treccani (1991-2001) (impresa scientifica ancora ineguagliata per ampiezza e rigore); un’attività istituzionale di sostenitore e promotore della presenza e del ruolo di insegnamenti sociologici nei curricula universitari umanistici, e non solo in quelli di scienze politiche, tra i quali possiamo ricordare anche il progetto originario dei corsi di laurea in Scienze della comunicazione, stilato nel 1990 in una commissione ministeriale da lui presieduta, con membri quali Umberto Eco, Gianni Statera e Adriano Pennacini.
In tutta la sua opera di studioso sviluppò gli argomenti storici e teorici del distacco definitivo della sociologia dal positivismo e un’idea profonda e articolata della cultura della modernità, di cui la sociologia è portatrice e nel contempo strumento conoscitivo, con connotati costitutivi di innovazione sociale e culturale, laicità della ricerca e del sapere, universalismo delle regole e importanza dell’interesse pubblico, metodo di indagine, europeismo interpretato come base di autentico cosmopolitismo. E praticò queste idee nelle istituzioni accademiche e culturali rafforzandole. La sua è quindi una eredità importante, preziosa, e non facile.