di Umberto Di Maggio
Danilo Dolci nasce nel 1924, a Sesana, in Friuli-Venezia-Giulia, cittadina italiana fino al 1947. Il padre è italiano, la madre è slovena. Nel 1952 si trasferisce a Trappeto dove muore nel 1997.
Dolci conosce la drammaticità del piccolo borgo di pescatori in provincia di Palermo; poiché l’ha frequentato da piccolo, seguendo il papà Enrico nei suoi tanti trasferimenti da ferroviere. Disoccupazione e degrado, ignoranza e analfabetismo, cattiva politica e illegalità sono le principali cause di una situazione assai complicata di quel piccolo paese ad ovest del capoluogo. Lì, la popolazione è suddita, incapacitata e perciò immobile, apatica. Ciò nel momento in cui, peraltro, in Italia si assiste all’acuirsi della questione meridionale. Mentre il Nord industrializzato prova, infatti, a emanciparsi, correndo spedito verso la modernità, il Sud resta ancorato ad un vecchio passato dove all’irrisolta presenza delle mafie si somma la massiccia emigrazione e l’inaridimento socio-economico.
Roma, Sesto San Giovanni e Nomadelfia sono le tappe più importanti del percorso di vita di Danilo. Nella capitale, con gli studi di architettura, si forma alla necessità di cura del territorio e alla pianificazione sostenibile; nella provincia milanese, la frequentazione delle realtà operaie, lo aiuta a comprendere l’importanza delle mobilitazioni collettive per i diritti e l’emancipazione; la permanenza nella comunità Nomadelfia di Don Zeno Saltini lo istruisce all’importanza dell’educazione maieutica e dei processi comunitari di empowerment.
Dolci è candidato nove volte al Nobel per la Pace; con le sue grandi doti comunicative stimola l’attenzione internazionale verso le povertà al Sud, dando così il meritato spazio alla condizione di perifericità dei Sud. Per farlo utilizza tutti i mezzi necessari. Il 25 marzo 1970, da Partinico (PA), inaugura le trasmissioni di una tra le prime radio libere in Italia: “Radio Libera”, denunciando le condizioni di degrado dei “poveri cristi” (2008) e lo spreco (1960a) – di risorse economiche e delle migliori energie del territorio – nella ricostruzione delle zone della Valle del Belìce e dello Jato, cioè due aree interne della Sicilia occidentale che giusto due anni prima erano state colpite da un devastante terremoto.
Inchiesta a Palermo (1958), Banditi a Partinico (1955), Spreco (1960a), Sulle condizioni di vita e di salute nelle zone arretrate della Sicilia occidentale (1960b) sono alcuni dei titoli delle ricerche di Dolci, dove la sua aspra critica – basata sulle evidenze empiriche – si rivolge nei confronti delle aporie del capitalismo. Utilizzando principalmente metodi etnografici, pur non disdegnando il ricorso anche a statistiche, il sociologo militante che sceglie la Sicilia come sua terra d’adozione (proprio come Mauro Rostagno a Trapani, un altro sociologo engagé venuto nell’isola dal Piemonte e che disse “io sono più trapanese di voi perché ho scelto di esserlo”) coniuga l’analisi teorica con quella empirica, la riflessione con l’azione, la denuncia con la proposta progettuale.
Il suo impegno scientifico e civile viene riconosciuto ampiamente. Riceve una laurea honoris causa in filosofia all’Università svizzera di Berna nel ‘68 e una in Scienze dell’Educazione all’Università di Bologna nel ‘96. Tra i suoi estimatori, tra gli altri, anche Habermas, Galtung, Fromm, Calamandrei, Bobbio, Levi, Piaget, Sartre, Pasolini, Russell ed in Italia Capitini, Tentori, Ferrarotti coi quali stringe proficue relazioni.
In particolare, Danilo Dolci va alla ribalta pubblica nell’ottobre del 1952, quando, a Trappeto (PA), a seguito della morte per denutrizione del piccolo Benedetto Barretta , inizia un clamoroso sciopero della fame. Lo fa, proprio nel letto che era stato di quel bambino, con una azione dimostrativa a grande impatto. Quella è la prima tappa di una lunga serie di mobilitazioni popolari condivise con la gente del posto (1966a). Di Dolci si ricordano, infatti, anche i digiuni collettivi e gli “scioperi alla rovescia”: azioni simboliche di grande eco mediatica, attraverso cui denuncia, soprattutto, le inadempienze della politica e le soperchierie mafiose. Le conseguenze di tali gesti sono dirompenti anche sul piano dell’ordine pubblico, e producono nei confronti di Dolci una forte reazione istituzionale che si concretizza, addirittura, con arresti e processi. La sua posizione è fortemente caldeggiata da molti intellettuali dell’epoca. E’ particolarmente nota l’arringa a suo sostegno da parte del padre costituente Piero Calamandrei che lo difende pubblicamente ritenendo il suo operato coerente coi principi contenuti nell’articolo 4 della Costituzione italiana (1956).
Le lotte civili di Dolci sono pacifiche e durano un ventennio; mirano ad integrare la coltivazione dell’idealità utopica, l’analisi critica, la programmazione politica nonché il miglioramento culturale ed educativo attraverso l’autoanalisi collettiva e la pratica della non-violenza. Quei digiuni e “scioperi alla rovescia” hanno un duplice obiettivo: “denunciare il potere” nella sua perversione del dominio e “dare potere” alle masse inascoltate (1966).
Dolci sperimenta una sociologia pubblica con un chiaro obiettivo di impegno civile. Sostiene a gran voce l’esigenza di “fare presto e bene perché si muore” (1954). Si tratta di una scienza sociale antitetica al virus del dominio (1988) che pone, quindi, al centro la maieutica reciproca (1998, 1996a; 1996b) e la valutazione partecipativa dell’impatto di ogni attività (economica, politica, educativa, sociale, ecc.) che ha come fulcro lo sviluppo della persona con i suoi bisogni, desideri e prospettive. Per far ciò, dice, è necessario “occuparsi dei fatti propri nel contesto degli altri” (1965: 11) perché ciascuno ha sempre un portato valoriale ed esperienziale da mettere in comune; dunque una ricchezza da non disperdere.
Ancorato alle latitudini del disagio e con sguardo volto alla prospettiva globale, è tra i sostenitori dell’idea di uno sviluppo creativo, ecologico, endogeno, non estrattivo e rispettoso, quindi, delle risorse e dei bisogni presenti e futuri. Dello sviluppo mancato di conseguenza dice: “enormi masse di persone ancora si credono impotenti rispetto ai loro problemi fondamentali, non hanno esperienza che lo sviluppo è possibile secondo la determinazione dell’uomo” (1965: 18).
Dolci evidenzia con chiarezza come sia necessaria un’azione unitaria, corale, collettiva e come alto sia il rischio di disperdersi, di sprecarsi e di “disperarsi” nella ricerca di soluzioni individuali al cospetto di problemi di difficile soluzione. Quel disperarsi che è letteralmente “di-sperarsi” e, quindi, perdere la speranza che si possa migliorare la condizione propria e degli altri.
Dolci individua, allora, nella necessità di una scienza sociale nuova, la capacità di vedere oltre la contingenza e di risolvere i problemi. Dice, specificamente. “Vorrei sottolineare la necessità di una visione e di una tecnica, di una scienza nuova: che potremmo chiamare sociologia della pianificazione […] a tutti i livelli: di gruppo, di nazione ed internazionale” (1965: 10). L’enfasi dolciana risiede pertanto sul bisogno di una sociologia che aggiunga alla riflessione critica gli strumenti di pianificazione dello sviluppo sociale ed economico e che apra, pertanto, all’autodeterminazione, alla coscientizzazione e riflessione ed alla valorizzazione delle capacità creative di ciascuno.
La “sociologia della pianificazione” di Dolci è anche un atto di co-responsabilità che include tutti. Egli dice, in questo direzione, “è perciò indispensabile un’azione dal basso affinché le popolazioni prendano coscienza dei loro problemi e delle relativi soluzioni, partecipino ad azioni locali, anche piccole ma precise e ben fatte, che diano il senso dell’enorme possibilità dell’agire comune con prospettiva” (1965: 17). Tale pianificazione, però, non deve essere individuale, sporadica e dispersiva; deve, piuttosto, essere “propria nel contesto degli altri” (1965: 11). Dolci sostiene che è “necessario che ciascuno, pur approfondendo il proprio punto di vista particolare, cerchi di ampliare ed illimpidire la visione d’insieme” (1965: 23). L’atto di “approfondire”, in particolare, richiama alla necessità di un costante riferimento alla profondità dell’analisi e, dunque, all’attenzione nei confronti di “chi sta sotto”. Il riferimento diretto è verso coloro che sono costretti in “vite mostruose” (1965: 42), ai poveri dunque che così possono assumere consapevolezza della loro condizione di indigenza. Questa, per lui, è l’unica prospettiva in grado di fare di ogni esperienza – singola e collettiva – un atto di conoscenza e di apprendimento e, pertanto, di miglioramento complessivo della società (1968). In questo senso Dolci dice che “occorre avere i piedi per terra nell’azione e nella lotta mentre lo sguardo vede lontano” (1965: 19). Così facendo i “piccoli”, confinati nel “sottomondo” subalterno (1965: 47) guadagnano libertà – e quindi si capacitano – perché acquistano, anzitutto, coscienza di sé e della dignità che meritano. Ciò perché, in fin dei conti, ciò che conta è “vincere l’inerzia dei secoli e della miseria” (1965: 47) e ridurre lo spreco (1960) – materiale ed immateriale – che obbliga a “rimanere tagliati fuori dalla possibilità di influenzare le direzioni verso un mondo nuovo” (1965: 26).
Questo convinto ottimismo, unito alla necessità di individuare e comprendere a fondo i “nessi fra esperienza etica e politica” (1993), sono forse la più grande eredità che ci consegna Danilo Dolci: un grande “sociologo della pianificazione” il cui lascito è ancora tutto da scoprire e valorizzare.
Bibliografia