Carlo Pennisi
Professore di Sociologia del Diritto
DSPS Università degli Studi di Catania
In un momento nel quale, giustamente, la maggior parte della comunità sociologica sta provando ad orientarsi e raccogliere dati appena più affidabili di quelli che circolano sui media, o a testare strumenti tecnico-metodologici per sondarne l’affidabilità, in un momento, insomma, in cui si sta cercando di concentrarsi per affrontare, con piani di ricerca solidi, quanto sta accadendo intorno a noi, quando si disporrà di un quadro appena più compiuto, in un momento così, scrivere può apparire temerario.
Eppure, proprio il momento invita alla modestia di provare a condividere, se non argomenti od ipotesi, almeno fuochi tematici intorno ai quali organizzare una propria riflessione su quanto, da sociologi, è necessario almeno ascoltare. E ciò che si avverte continua a cambiare, di settimana in settimana, rendendo ancora più urgente, insieme, la percezione del vuoto del dopo e l’esigenza di ancoraggi che organizzino almeno le nostre intuizioni.
Ad alimentare il continuo mutare dello spaesamento contribuisce non poco l’intrecciarsi di almeno due livelli di esperienza. Un piano simbolico rappresentazionale, con le proprie specifiche generalizzazioni, semplificatrici quanto si vuole ma utili o fuorvianti solo nei limiti degli usi che se ne fanno, e un piano che cerca di individuare come, dove e quando una epidemia si trasforma in pandemia, questa in un disastro sanitario e questo in un collasso economico, poi sociale e quindi, inevitabilmente, politico. Sono due flussi di esperienza inseparabili e, per questo, impongono reciprocamente limiti a ciò che si può capire e, soprattutto a ciò che si può dire.
Sul piano delle rappresentazioni, del modo in cui variamente ci siamo resi conto di quanto stava accadendo, sembrano emergere come centrali alcune nozioni e, soprattutto, il loro mutare. La prima è la contemporaneità. La trasformazione della percezione della globalizzazione non più in termini di distanze mutate, ma in termini di istantaneità della condizione in cui ci si è venuti a trovare ai quattro angoli del mondo. La correttezza della percezione non viene toccata dai ritardi tra i vari paesi, perché non è dipendente da cronologia, ma esprime al contrario soltanto quell’assenza di riferimenti nel tempo e nello spazio che rende tutto contemporaneo. La nuova percezione della globalizzazione diviene misura dello svuotamento del senso con cui essa si era proposta, diviene richiesta di un senso che ci renda comprensibili esperienze contemporanee e distanti, senza appiattirle in un’impossibile uguale “casa” dove si stia. La seconda nozione che appare mutare è la storicità. Proprio contraddicendo la storiografia delle epidemie note, essa raffigura come piene di conseguenze le scelte che si decide di fare in questo momento, configura l’idea che le decisioni di adesso contino nel disegnare, non ciò “a cui si andrà incontro” (come se fosse lì), ma ciò che sarà dopo perché è stato voluto adesso. Ma poiché nessuno può credere realisticamente di “cambiare” un futuro che non vede e che non può raffigurarsi come proiezione di un passato, interrotto da un presente che dilaga nella contemporaneità, ci paralizza la sensazione che non ci sia alcuna decisione sottratta al discredito, che ci possa non essere alcuna decisione.
Per converso, se la ricerca di una dimensione collettiva del senso naufraga in una contemporaneità senza storia, gli aspetti immediatamente relazionali nei quali si è rinchiusa improvvisamente l’interazione quotidiana sembrano esaltare e trasformare due nozioni comuni, dai risvolti solo inizialmente soggettivi. La prima è quella di fragilità. Essa riemerge dalla memoria delle proprie malattie e si diffonde sulle appartenenze generazionali, familiari, comunitarie sino agli irrisolti orizzonti dei rimorsi ecologici. Né paura o emozioni simili, né ansia, la fragilità diventa il prisma nel quale contemporaneamente si moltiplicano le diseguaglianze ma, anche, si smaschera l’inutilità esistenziale di artefatte diseguaglianze. Così, nell’intercettare contemporaneamente l’eguale e il diseguale, essa sembra trasformarsi in una potente leva sotto ogni criterio sin qui assunto per scalare o dividere persone, interrogandoci su quale umanità ci possiede. L’altra nozione che appare muovere e cambiare da una interazione rinchiusa è quella di responsabilità. Un insolubile bisogno di affidarsi si trasforma nel bisogno di diventare affidabili, in un gioco di reciprocità che sembra dare nuove forme alle richieste ed alle offerte di fiducia. Una inaspettata e nascosta riserva di affidabilità che modifica quanto sapevamo sulla fiducia e che si rende improvvisamente disponibile, ma non sappiamo a quali condizioni. Sappiamo però sino a quando.
Sappiamo, infatti, che il cambiamento che si avverte nella percezione di queste nozioni, quello che ha permesso di superare le prime reazioni semplicemente emotive e la ricerca di rituali espressivi in cui soltanto ripararsi, come fosse un improvviso temporale, il cambiamento, che continua a cambiare nel modo in cui si riarticola una quotidianità che non può diventare abitudine, è accolto, con dosi insospettabili di disciplina, perché avvolto da una ipotesi di temporaneità che non può diventare attesa senza riacquistare la storicità di un futuro.
Questa temporaneità, che racchiude il caos del tutto contemporaneo, è molto più che una consolatoria ragione. Essa infatti tiene insieme, perché sospende le ragioni di ciascuna delle cose che rende possibile, sia la trasformazione dell’obbligo in necessità, sia l’allontanamento, nel tempo, della inevitabile convivenza con una minaccia che non ha ancora assunto le forme del rischio. Ed è qui il motore della disciplina, del farsene una ragione, della tensione tra emergenza ed eccezione. Ma qui anche l’alternativa tra il consegnarsi ed il riconoscere i nodi venuti al pettine. Strade, entrambe, che solo collettivamente conducono alla forma di un senso a partire dal quale la necessità può tornare a comporre obblighi e l’eccezione mostrare la regola che la smaschera. Ma entrambe sono strade che ci riportano, dal piano simbolico rappresentazionale, nel quale intuiamo le metamorfosi di tutte le nozioni a cui si è fatto cenno, al piano che esse interrogano e sul quale chiedono il confronto per una collettiva attribuzione di senso.
Riportano alla domanda su come, dove, quando una epidemia si trasforma in pandemia, questa in un disastro sanitario e questo in un collasso economico, poi sociale e quindi, inevitabilmente, politico. Il flusso di analisi, ricostruzioni, interpretazioni, ipotesi e letture che monta inesorabilmente, nonostante la vischiosità dei dati, l’eterogeneità delle rilevazioni, le differenze dei contesti culturali ed organizzativi, ci assicura che non si potrà venire a capo presto, facilmente ed in modo non controverso, delle domande che emergono su questo secondo piano. Perché questo secondo piano non è percepibile e affrontabile senza il primo e perché a quelle domande occorrerà dare risposte che non possono essere solo scientifiche.
Le poche differenze sulle quali esistono meno incertezze riguardano distinzioni già note, ma che proprio per questo accrescono lo sbalordimento che sostiene il piano simbolico rappresentazionale. Tra queste, la presenza dell’esperienza della Sars (la sua presenza, non il fatto che la si sia avuta) distingue la reazione dei paesi asiatici da quelli dell’occidente. La forza di questa presenza risalta rispetto alla irrilevanza che si è attribuita in Europa alle numerose previsioni scientifiche successive alla Sars. Dice moltissimo sul ruolo che nei due contesti si è attribuito alla conoscenza scientifica e ci si potrà riflettere, come fu per il lancio dello Sputnick per la scienza statunitense, se in gioco vengono posti assetti più ampi del sistema culturale. La prevalenza della tecnologia nella percezione dell’apporto della scienza al processo culturale dei nostri contesti sociali ha agevolato uno svuotamento del quadro di valori entro cui soltanto il processo scientifico si pone come contributo critico alle scelte collettive, mentre ha ingigantito, con l’attesa prestazionale nei suoi confronti, la sensazione di onnipotenza la cui attuale sconfitta è ben poco sorprendente. Col risultato che si è privilegiata, anche delle stesse opportunità tecnologiche, la dimensione individualistica, efficientista e competitiva. Non può dunque sorprendere la marginalità nel dibattito politico e culturale delle previsioni pandemiche. Ma la irrilevanza nella quale sono rimaste è soltanto una frazione della sordità che si è continuata ad avere verso ogni dimensione collettiva che non fosse riconducibile a dimensioni individualistiche. Che si cerca adesso dopo aver de-finanziato le ricerche sul vaccino per Sars? Sulle condizioni di rischio in cui si è sviluppata la globalizzazione si sono scritte opere straordinarie. L’attuale nuova ed eccezionale collaborazione internazionale recupererà certamente futuro, ma solo per chi è sopravvissuto. Non è poco, ma non sarà abbastanza se non si troverà modo di comprendere quello pandemico come un rischio che abbia la stessa quotidianità delle piattaforme dell’eCommerce. Ma non è poca la strada ancora da fare perché quelle nozioni dalle quali guardiamo la nostra condizione possano cogliere il loro necessario ed ancora indecifrato carattere ecologico.
Una accresciuta sensibilità scientifica, d’altra parte, sarebbe soltanto una variazione ideologica, se non divenisse consapevole che la sordità è stata procurata anche dal modo in cui lo stesso sapere scientifico è stato banalizzato per essere schiacciato sulla sua utilità tecnologica. Si continua così a sostenere, contro tante evidenze, che il passaggio dalla pandemia al disastro sanitario sia stato dovuto alla riduzione dei finanziamenti del settore, rimanendo sordi al fatto che la costanza dei finanziamenti che hanno coperto tra il settanta e l’ottanta percento dei bilanci di tutte le regioni, la costanza dei finanziamenti misurata sul piano europeo, con le opportune periodizzazioni, avverte che il problema è stato piuttosto nel modello di spesa, nelle destinazioni e nelle scelte che l’hanno orientata.
Se risulterà vero che sono prevalsi orientamenti tesi a privilegiare grandi strutture piuttosto che reti territoriali, interventi d’avanguardia, capaci di attrarre risorse e pazienti da regioni e nazioni distanti, piuttosto che reti per una cronicità sordamente chiamata “allungamento della vita”, allora qualcosa diventerà necessaria. Si dovrà infatti capire come, quando e dove, una managerializzazione marciante da venticinque anni sotto la bandiera dell’eccellenza abbia potuto conquistare i sistemi sanitari e da lì riproporsi, con alterne fortune, in ogni amministrazione che si era voluta sin lì pubblica perché resa potente e limitata da precisi valori costituzionali, pubblica perché la sua azione non avrebbe potuto essere ridotta ad efficacia ed efficienza senza che fosse dato a questi parametri il contenuto di equità e di giustizia che rendesse le sue ragioni “fini” della Repubblica (e non solo di uno Stato).
Così, il disastro sanitario appare come effetto visibile di un grumo di irrisoluzioni culturali ed istituzionali pronto a dilagare sul piano economico e sociale, oltreché politico. Ma il processo è in corso. La sensazione che, al di là di ogni retorica, possa essere una svolta deriva dalla non diffusa consapevolezza che ogni semplificazione pragmaticamente riduzionista (“finanziamo la sanità”, “finanziamo le imprese”, “finanziamo i privati”) apparirà arbitraria, oltre che banale, che solo rassegnazione e disperazione potranno accogliere il ripresentarsi immutato (soltanto “posticipato”) di quegli assetti istituzionali (nel privato, nelle imprese, nelle amministrazioni) che, in ciascun ambito delle nostre vite, pur avendoci condotto in questa quarantena, proveranno pure a dare forma alla convivenza col virus e da lì illudersi di potere aspettare la prossima pandemia.