Brevi riflessioni per immaginare senza immaginario in un tempo senza tempo

di Giulia Crippa

Necropolitica che diventa macropolitica pubblica, la cui complessità va ben oltre la questione dell’emergenza. La riduzione della sanità pubblica è una necropolitica, scopriamo durante questo isolamento collettivo che accade in tutti i luoghi. Le linee guida su “sommersi e salvati” rispondono ufficialmente alle modalità di questa necropolitica. La priorità deve essere data a chi è produttivo nella società. Anziani e deboli non servono.

Lo trovi troppo brutale? Sto esagerando? Sono una fan delle teorie della cospirazione? È lecito che chiunque legga possa pensarlo.

Accanto al profilo della necropolitica, che in questa emergenza è stata testata per osservare la reazione della popolazione di fronte al “dilemma” di coloro che possono essere salvati, si può vedere la biopolitica della distanza. I corpi separati da almeno un metro negli spazi pubblici, mentre gli spazi per il tempo libero, chiusi, non sono più spazi per i corpi.

All’improvviso ogni corpo che non sono io è un “nemico”, un alieno. Espropriati dai luoghi in cui si trovavano, i corpi sono isolati nel privato. L ‘”altro” richiede la distanza, l’”altro” causa la distanza.

Ogni relazione è improvvisamente riversata nelle mediazioni tecnologiche. Il Capitalismo Virale rende la crisi “motivazionale”: facciamo del ritiro un’occasione di “progresso”, facciamo in pochi giorni ciò che non è stato fatto negli ultimi anni. Lavoro “remoto” (ma è più bello, sul mercato, chiamalo smartwork), lezioni “remote”, esami “remoti”. La linea guida è una sola: cambiare stile di vita, cambiare il comportamento sociale da un giorno all’altro.

Non c’è niente da fare, dopo le 18:00. La città entra in uno stato d’assedio. Le nuove “regole” non consentono alcuna sociabilità. Stiamo davvero tutti guardando le piattaforme di streaming? Questo aspetto del Capitalismo Virale si è sicuramente beneficiato della situazione. Ma un dubbio espande pericolosamente il suo perimetro: no, credo proprio che non tutti guardino i prodotti (adesso) sedativi di Netflix o di Amazon. La maggior parte della popolazione dipende dalla programmazione tossica e intossicata della TV aperta. Per far passare il tempo.

La paura che provo è di natura inedita. È legata alla reazione delle persone, che nei loro discorsi rivelano tocchi di isteria e mancanza di razionalità. Un conoscente ha detto (scusate il francesismo, la citazione è letterale): “fanculo i diritti, la salute è la cosa principale”. Ciò mette sotto scacco l’intera prospettiva della civiltà radicata nel progetto Illuminista. So che si trattava di un progetto borghese, bianco, maschile, ma non posso negare che è sulle sue basi che tutte le possibili rivendicazioni dei diritti sono fiorite. Il progetto dell’Illuminismo combina l’educazione alla costruzione di conoscenze che consentirebbero, con l’intermediazione degli intellettuali e la circolazione dell’informazione, la creazione, alla fine, di una certa coscienza civile. Se condotto seriamente, porterebbe ogni cittadino, in una situazione di emergenza, a prendere – come individuo parte di una collettività – le misure adatte a superare una crisi come quella che stiamo attraversando, senza grosse difficoltà. So che è molto semplicistico, detto così, ma Habermas è una delle letture che aiuta a capire questo processo.

Tuttavia, le scelte politiche degli ultimi anni – nel campo dell’educazione, così come nei media “spettacolari” e sempre meno preoccupati con l’informazione – hanno fomentato le paure irrazionali dei nostri giorni. Voglio dire, con questo, che la mancanza di una migliore elaborazione delle politiche pubbliche nel campo dell’istruzione, delle politiche pubbliche nel campo della salute e nel campo dell’informazione porta, oggi, a “invocare” strumenti di repressione per controllare il contagio. Le persone, “spontaneamente” indotte dalla paura, chiedono l’intervento del dispositivo repressivo. L’idea che qualcuno che conosco dica “fanculo i diritti” (scusate, di nuovo, il francesismo) ha implicazioni piuttosto complesse: è il sintomo di un “cortocircuito” sociale. In primo luogo, viene invocato il “pugno di ferro” delle autorità contro i “trasgressori”. I quali, a dire il vero, non sono molti, ma vengono via via identificati: prima i joggers, poi, negli ultimi giorni, i bambini.

Non c’è assolutamente niente di normale, in questa situazione, ed è esattamente per questo che è indispensabile mettere in discussione l’elaborazione di narrative capaci di immaginare i tempi della “normalità” che attendiamo. Cosa rimarrà, al termine dell’emergenza, delle “misure di controllo efficaci”?
Ciò che mi preoccupa, ripeto, è la richiesta di repressione. Perché significa il fallimento della nostra capacità di affrontare, con la responsabilità individuale che guarda al collettivo, la situazione. In altre parole: il fallimento di un intero sistema educativo e informazionale capace di “immaginare” la consapevolezza della responsabilità sociale e individuale. Nell’isteria della reclusione, dimentichiamo facilmente che le misure restrittive rimangono legate più allo smantellamento della sanità pubblica che all’effettivo potere mortale del virus. Se i letti mancano in terapia intensiva, è perché negli ultimi anni gli ospedali devono dimostrare di funzionare come aziende produttive o essere chiusi. Quindi, giocando con la paura, le istituzioni alimentano l’oblio della politica, così come la ricerca di uno stato forte e repressivo. Semplice.

Tempo prolungato: riempire le ore è un problema psicologico. All’inizio, giornali, radio e TV offrivano elenchi di libri per renderci più “saggi” sulle pestilenze, le loro metafore e i loro simbolismi. Quindi ecco il via ai molti programmi “illustrati” e “intelligenti” per godersi l’isolamento con buone letture. Ma, a mio avviso, restano le ansie che inevitabilmente causano le letture di Camus, Saramago, Sontag, Boccaccio, Manzoni e Defoe. Io sono comunque pop, e non dimentico L’ombra dello scorpione del re Stephen King, trascurato in tali elenchi “intellettuali”, così come La maschera della morte rossa di Poe. E molti hanno dimenticato La peste scarlatta di London, lungo racconto post-apocalittico ambientato nel 2073.

Bene, dopo essere diventati più colta e angosciata grazie alle pestilenze letterarie, scopro che il percorso all’educazione della reclusione si costruisce concentrandosi sulla seguente domanda: come affrontare i limiti delle mura e (per i fortunati) delle recinzioni del giardino?

Così mi sono venuti in mente Il muro, di Marlene Haushofer, o il classico La linea d’ombra, di Conrad, che combina lo spazio limitato e claustrofobico di una nave – intrappolata in quello dilatato e immobile del deserto oceanico – con la malattia che si diffonde a bordo. Di nuovo la mia versione pop: Stephen King è presente, col suo Under the dome. Riscopro altre perle sul tema isolamento nella mia libreria. Per quanto riguarda questa limitazione dello spazio e del movimento, penso di non aver ancora visto molto sui giornali, né sentito programmi radiofonici o televisivi che ne parlassero, quindi inviate suggerimenti: apparentemente l’isolamento (più o meno “volontario”) è un tema abbastanza presente nella letteratura di tutti i tempi.

Il Capitalismo Virale è temporaneamente addormentato, o sta lavorando subdolamente, nessuno lo capisce molto bene. È underground, è diventato clandestino: chi, oggi, ha la capacità di vedere l’orizzonte di qualsiasi economia, con un tale calo dei consumi? Per il momento, ci sembra più comodo questo presente in cui niente ci si offre come supporto alla capacità di adattamento. La sensazione è un vuoto scomodo. Tutti posticipano i progetti di riflessione per questo sogno/incubo impalpabile di un “dopo”, ma cosa sarà, questo dopo, se non il nostro adesso che non viene riflettuto, questa attesa senza scopo in cui ci troviamo? In un meme, suonerebbe così: “Il futuro? Facciamo progetti dopo. Per ora, resta a casa, o chiamerò l’esercito”.

Con l’esclusione dell’armamentario retorico e nazionalista (insieme riusciremo/stiamo facendo un passo indietro e poi avremo più slancio, e altre sciocchezze di questo tipo), fondamentalmente il paese è immaginato in uno stato di guerra. Il termine guerra (è una guerra/dobbiamo affrontare questa battaglia e altre assurdità del tipo) è stato usato in modo leggero e pericoloso, poiché apre le porte a qualsiasi sospensione dei diritti, con l’ampio sostegno di una popolazione spaventata dal modo in cui sono costruite le notizie.

No. I diritti sono già sospesi, anche se temporaneamente. Quello che succede è che non siamo in grado di vedere quali mutazioni stanno attraversando questi diritti, come queste mutazioni andranno a sedimentare. I dosaggi di shock quotidiani a cui siamo sottoposti anestetizzano la nostra sensibilità al problema. In effetti, in sostanza, abbiamo bollettini di guerra, con il numero giornaliero di nuovi infetti e morti. I contatti che ho con le persone che conosco rivelano che, nonostante tutti i suggerimenti dei media sul “tempo riscoperto” in quarantena, sulla “grande possibilità” di cambiare le nostre abitudini familiari (e altre simili sciocchezze), siamo fortemente carenti di attenzione. Non solo io, ma molti altri che appartengono alla categoria dei ben informati, i grandi lettori, in breve, i privilegiati, abbiamo difficoltà a concentrarci.

È difficile seguire anche gli script più banali delle serie televisive. Gli inviti a seguire le routine di benessere fisico, i corsi online e altre “panacee” per preservare la qualità della vita non riescono più a mantenere la nostra testa a posto. Tutte le risorse digitali in azione sono inefficaci per distrarci dal fatto che siamo bloccati, e non solo i nostri corpi, ma le nostre facoltà immaginative. Non sappiamo cosa accadrà domani (chi ci dirà quando saremo liberi di camminare di nuovo senza una giustificazione?). Una paralisi immaginaria e dell’immaginario ci ha colpito, non abbiamo input per proiettarci in narrazioni che non siano immediate, il qui ed ora di dati astratti che ci vengono offerti. Colpiti da un trauma collettivo in atto, stiamo assistendo alla scomparsa delle capacità di disegnare il mondo oltre la crisi, sia esso utopico o distopico, non importa.

Personalmente, penso che questa paralisi sia pericolosa. Non solo perché apre la strada al vuoto (già presente, in effetti), ma perché non ci consente di percepire il degrado delle relazioni sociali, già fortemente compromesso dall’isolamento. Le reazioni comuni, quando si dice “ma, poi, dopo come faremo a…?”, quando si esprime un dubbio sono, in breve: “non importa il dopo. Siamo in un’emergenza. Il pensiero non fa parte del quadro attuale, dobbiamo obbedire “. Chiunque si interroghi sul possibile scenario inizia gradualmente a essere visto come un “nemico” della salute pubblica, un nemico del collettivo. Collettivo, questo, che è un “ovvio silenzioso”, quindi non definito, non elaborato.

Sopraffatti dal numero di bollettini di guerra, sempre forniti in modo assoluto di numeri astratti, sempre rivolti a mantenere alto il livello di allarme, non riusciamo a ideare strategie alternative, né scenari futuri. Qualsiasi forma di riflessione collettiva viene eliminata. Quanto pesa, l’emergenza continua, sull’elaborazione non solo del futuro, ma del presente stesso? Senza sapere quando finirà, senza nemmeno “raccontarcela” su come potrebbe finire, non siamo in grado di “inventare” risultati (non importa quanto possibili, credibili, o assurdi …)

Se la realtà era diventata liquida, forse il liquido è evaporato e, di fatto, lo stato gassoso di una realtà, impalpabile è ora la nostra situazione. La nostra paralisi cognitiva sta peggiorando.

Dall’inizio dei nostri arresti domiciliari, l’uso delle metafore legate alla guerra mi ha infastidito. In guerra ci sono inevitabili vittime, la popolazione è chiamata al sacrificio, ognuno diventa un soldato e, come è noto, un soldato obbedisce. Abbiamo, di fronte a questo nuovo non-tempo, che comprime le nostre vite in un presente illimitato, il compito di sviluppare riflessioni sulle implicazioni che le metafore di guerra impongono. Suggerisco alcuni argomenti: il cambiamento del ruolo della responsabilità della società civile nel processo decisionale rispetto all’imposizione di regole imposte da istituzioni che, in caso di emergenza, “militarizzano”; oppure, cosa significa obbedienza, qualcosa in cui non riconosciamo la necessità di ritenere ciascuno responsabile per le sue decisioni; o, ancora, quello delle vittime “inevitabili”; infine, la logica contro le idee di accoglienza e cura dei corpi più fragili.

Nel nostro brancolare nel buio, causato dall’ignoranza del futuro, intanto, il Capitalismo Virale sceglie, in modo goffo, di far finta che sia possibile isolare corpi fragili senza cambiare le abitudini del sistema produttivo basato sulla necropolitica. In assenza di alternative plausibili, con l’obiettivo di sopravvivere a sé stesso, utilizza due strumenti. Il primo, attraverso l’implementazione del linguaggio della guerra, articola la necessità di sacrificare corpi fragili. Ogni guerra ha delle vittime, è inevitabile, saranno le vittime di quella guerra. È urgente cambiare questa scelta di un discorso legato alla natura dello stato di guerra, perché esso, inevitabilmente, ha bisogno di nemici. Ma un virus assomiglia molto di più a una “cosa”, non riesce a essere un nemico, per il quale è essenziale almeno la parvenza di una vita. Il secondo è la favola dell’”energia positiva”. Se pensiamo positivo, tutto andrà bene. Questo linguaggio viene costruito offrendo al pubblico una serie di notizie su come, nonostante tutto, la situazione verrà risolta serenamente (come e quando, tuttavia, non ci è dato sapere, ma negli ultimi giorni i media hanno cominciato a permetterci di osare sperare).

Anche i nostri respiri sono sospesi, in attesa di un risultato, che non arriva, perché non viviamo in un film, dove una storia finisce, nel bene o nel male.

Uno degli effetti che provo quando leggo o guardo un film o una serie è la stranezza che la vita sociale rappresentata mi provoca. Questa cosa di personaggi che camminano per strada, parlano, si riuniscono, perde coerenza, è la parte della finzione più difficile da associare alle nostre nuove abitudini quotidiane. Mi provoca incredulità.

Tutto questo, è innegabile, è un trauma. L’impossibilità di creare un futuro nei nostri discorsi fa parte del trauma. Allo stesso tempo ne è sintomo e causa. Non siamo in grado di proporre alcuna azione presente o futura. La paralisi è diventata molto più intensa ed estesa, non si limita più alla parola (im) possibile, ma impedisce la possibilità dell’”atto”.

La scomparsa del tempo, la continua pressione di sentirci in pericolo, in emergenza, ci impedisce di indagare a fondo. Tutto sembra cambiare troppo rapidamente, anche se rimane – in effetti – praticamente uguale ogni giorno e, quindi, ho la sensazione che tutto scompaia dall’oggi al domani.

Tutto ha perso spessore, tutto ciò che era interessante ha il sapore del grigio. Alla radio, qualche giorno fa, in un programma dedicato ai beni culturali e al loro destino in questa emergenza, mi sono sorpresa a pensare che tali beni non sono mai stati, come ora, al sicuro. Pensaci: città d’arte, grandi musei, luoghi di infinita bellezza naturale e culturale sono ora al di fuori dalla portata umana. Non c’è pericolo per loro, poiché le orde di turisti sono scomparse. Ciò che chiamiamo “bello” è paradossalmente conservato grazie all’assenza degli umani invasori. La preoccupazione dei partecipanti al programma era, però, ovviamente, come riaccendere la “fiamma” dell’economia turistica.

Intanto, ho rubato i guanti di plastica dal fruttivendolo, in modo da poter spingere il carrello del supermercato: chissà chi l’ha toccato prima di me … Odio diventare un corpo che ha paura delle tracce di altri corpi. La paura mi disumanizza, è chiaro.

I giornali propongono dilemmi in stile hollywoodiano, una delizia semiotica, da scorrere. Il menù proposto spazia tra l’ipotesi di trovare corpi immuni, quelli che, secondo la finzione, sarebbero i “salvatori della patria”, permettendo che tutto ricominci mentre, dal lato opposto, offrono prefigurazioni distopiche: un applicativo che dovrebbe suonare per avvisarci ogni volta che siamo in presenza di corpi che, tracciati 24 ore al giorno, rappresentano una minaccia virale. In mezzo a tutto ciò, si distacca l’immagine dei gruppi evangelici che, nella città di Recife, si inginocchiano – a distanza di sicurezza – e pregano per la fine del flagello.

Quello che mi incanta è la categoria estetica di narrazioni e immagini di questa natura: il grottesco. Ciò che noi classifichiamo come “bello”, nella sua versione digitalizzata, sfocia nel grottesco. Siamo saturi di proposte di visite virtuali a musei e parchi, chi lo vuole davvero? La grande menzogna di questo tempo contraffatto è quella di cogliere l’occasione per diventare più “colti”. Non possiamo viaggiare, ma possiamo diventare bulimici di musei e monumenti. È un peccato che nella bulimia inghiottiamo tutto senza discernimento, per poi rigurgitare volontariamente.

Codificare la mancanza di un immaginario proiettivo, manifestarlo come nastro di Moebius, che può essere interrotto solo se tagliato. La narrazione infinitamente unidimensionale del coronavirus può essere interrotta solo tagliando. Un nastro di Moebius indica topologie ancora inesplorate. Se costruire un immaginario per un futuro (sia esso post-virale o di convivenza col virus) si basa sul linguaggio del presente, dobbiamo allontanarci da ciò che pensavamo “con” Hollywood. Da quello che pensiamo di un immaginario “su” un’epidemia. Quello che film e narrazioni hanno costruito come scenario virale, possiamo già sperimentarlo. Non è più una proiezione immaginaria, ora. Diventa esperienza che fatica a tradursi in linguaggio narrativo.

Ciò che possiamo fare al massimo è confrontare la lunga lista di libri su pesti, piaghe, cecità e cadaveri ammucchiati con ciò che sta accadendo. Diverso è un racconto proiettivo. É territorio vergine (o semi-vergine). Dimentichiamoci Mad Max per un momento. O il grande Jena Plisken. Le finzioni distopiche post-apocalittiche non possono essere costruite come le finzioni apocalittiche: parassiti e pestilenze esistono da sempre e vengono superati. Nemmeno gli scenari cupi descritti da Paolo Diacono nella sua Storia dei Longobardi sono rimasti vuoti. La storia li ha popolati di nuovo. La Milano di Manzoni, la Londra di Defoe non scomparvero quando la peste cessò. Quindi non possiamo inserirci in un immaginario collegato a personaggi eroici e ai sopravvissuti (pochi), spesso tramutati in mostri, che la cinematografia ci ha abituato a guardare. Troppo specifici, non consentono alcuna proiezione collettiva. Sono limitati all’evasione. D’altra parte, l’immaginario “pestilenziale” è stato costruito nel tempo, sulla base di esperienze, documentazione, registri e, in finzioni più recenti, grazie all’assistenza e alla consulenza di “esperti in catastrofi”, in studi statistici. Finzioni apocalittiche basate su qualche esperienza/studio, tuttavia, terminano in genere quando finiscono le pestilenze. Siamo nel mezzo della “peste”. Come trasformare, quindi, il linguaggio in un futuro?

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