Maurizio Ambrosini
docente di sociologia delle migrazioni
Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche
università di Milano
La corte di giustizia dell’UE ha battuto un colpo. La notizia arriva attutita, in questo tempo sopraffatto dall’emergenza del COVID19, ma potrebbe fare storia. Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca sono state condannate –dopo quasi cinque anni-, per non aver onorato l’impegno alla redistribuzione dei richiedenti asilo raggiunto in sede comunitaria nel settembre 2015: 160.000 profughi approdati in Italia e in Grecia avrebbero dovuto trovare accoglienza in altri paesi dell’UE, secondo quote precise.
Pur rimanendo al di sotto delle quote fissate, la Repubblica Ceca si era impegnata ad accogliere 50 profughi, fermandosi a 12; la Polonia ne aveva accettati teoricamente 100, senza ammetterne nessuno; l’ultra-sovranista Ungheria di Orban si era invece fin dall’inizio negata.
I tre governi interessati avevano invocato problemi di sicurezza e ordine pubblico per disattendere gli impegni. Ma più profondamente ponevano un problema di sovranità nazionale, contestando il diritto di autorità esterne a decidere chi doveva essere ammesso entro i loro confini. Dopo oltre due anni, nel dicembre 2017, un’UE non proprio reattiva aveva avviato un procedimento d’infrazione. Dopo altri due anni e qualche mese è arrivato il verdetto, che sancisce un principio: le motivazioni addotte non possono consentire ai governi di sottrarsi all’applicazione di un atto dell’Unione.
Le conseguenze della sentenza sono blande: i tre governi reprobi sono invitati ad onorare gli impegni, e se non lo faranno la Commissione UE potrà richiedere alla Corte di giustizia di comminare delle sanzioni pecuniarie.
Insieme alla soddisfazione per il risultato finale, sorge la domanda delle ragioni di un’azione giudiziaria così circospetta e dilazionata.
La lentezza e la prudenza dell’azione comunitaria si spiegano anzitutto con una caratteristica che accompagna la costruzione europea fin dalle sue origini: la preminenza della dimensione economica su quella politica e sociale. Nata come Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, divenuta poi Mercato Comune Europeo, ha sempre affidato agli interessi economici il compito di guidare l’integrazione tra i paesi membri. Sperando che l’economia avrebbe trainato la politica. Ancora oggi, le quote latte o l’etichettatura dei prodotti, per non menzionare gli aiuti di Stato o il sostegno alle banche, sono regolati con molta più attenzione, severità e rapidità delle violazioni in materia di diritti umani. Le politiche migratorie poi, come quelle relative alla cittadinanza, sono sempre state gelosamente difese dai governi nazionali.
In secondo luogo, se i tre governi del gruppo di Visegrad sono venuti allo scoperto subito e in modo aperto, altri governi in forme meno clamorose e più indirette li hanno seguiti: i richiedenti asilo ricollocati sono stati in tutto appena 13.000, prima che il programma di reinsediamento venisse ufficialmente (e ingloriosamente) abbandonato. La differenza tra l’obiettivo iniziale e quello raggiunto non può essere addossata unicamente, e nemmeno prevalentemente, alla riluttanza dei tre governi finiti sul banco degli imputati.
Altri fatti successivi, come la sospensione dei soccorsi in mare, gli onerosi accordi con i paesi di transito, il recente sostegno alla chiusura greca delle frontiere, con tanto di invio di mezzi navali e aerei, oltre che di rinforzi armati, dimostrano che purtroppo non regge la contrapposizione tra un’UE accogliente e pochi governi nazionali insensibili ai diritti umani.
Forse proprio per questo la sentenza apre uno spiraglio di speranza. Pone in luce il fatto che anche a livello europeo opera un sistema giudiziario indipendente: esiste un sistema di contrappesi e controlli che vigila sull’operato dei governi. Almeno ogni tanto riesce a richiamarli al rispetto degli impegni che hanno sottoscritto e dei valori che dichiarano di onorare. La strada è ancora lunga, ma la sentenza della Corte del Lussemburgo parla dell’Europa che vorremmo. Annuncia l’alba di un’attesa Pasqua dei diritti umani.