di Francesco Giorgino (Luiss)
Il marketing al tempo del coronavirus. Domanda ed offerta si incontrano su un terreno in cui percezioni mediate ed immediate, esperienze dirette ed indirette, bisogni ed aspirazioni, consapevolezze e visioni si rincorrono collocandosi con determinazione in una dimensione a matrice circolare. Una dimensione, cioè, frutto di condizionamenti reciproci e conseguenza manifesta del superamento dei processi lineari e dei rapporti di causa-effetto tipico della postmodernità. Si tratta di uno scenario che, anche nella variegata sfera dei consumi, mostra insieme la condizione di vulnerabilità degli esseri umani e la loro voglia di trascenderla. Del resto, prendere atto del potere oscuro dell’incertezza, specie dopo aver coltivato il mito del suo contrario così come alimentato da molti contesti immaginali degli ultimi decenni, è di per sé un trauma. È di per sé elemento di discontinuità netta e radicale rispetto al recente passato, nel mentre si svela un’istanza di cambiamento assai interessante da indagare.
Non sappiamo cosa accadrà all’homo oeconomicus dopo la fine di questo “fatto sociale totale” (Mauss, 1925), come la sociologia tende giustamente a definire il contagio planetario da coronavirus. Sappiamo, tuttavia, che, specie da quando ha provato a coltivare i vantaggi del suo graduale scivolamento in direzione del societing (Fabris, 2009; Giorgino, Mazzù, 2018) al fine di enfatizzarne la prospettiva di quel “consumo di senso” tanto caro a de Certau, il marketing ha cominciato a cambiare orientamento e direzione. Anche il consumo, infatti, è sempre più comunicazione ed immagine e, di conseguenza, sempre meno funzione e materia (Codeluppi, 2012). Il valore dei prodotti e dei servizi viene ricollocato nell’uso simbolico ed effettivo che di essi viene fatto giornalmente, giungendo persino a forme di rivendicazione identitaria che generano, unitamente a significati specifici in chiave denotativa e connotativa, veri e propri legami sociali. È questo quadro di riferimento, rimarcato già dall’idea di segno di valore e di “valore segno” (Baudrillard, 2012), a modellare, dirigere, sviluppare l’interazione tra i Brand e i consumatori in uno stato emergenziale che rileva dal punto di vista sanitario, politico, economico, culturale e sociale. L’interazione diventa conversazione stabile intorno ad un processo di reciproco e contestuale riconoscimento delle nuove priorità sociali così come determinate dal precario vissuto individuale. L’intento, cioè, è quello di costruire un modello di “socialità altra”, per usare le parole di Maria Carmela Agodi. Un modello che sia in grado di ridefinire perimetri e parametri del capitale relazionale e di quello simbolico, secondo un andamento altalenante che oscilla tra la paura, la fiducia e la speranza. La marca, diventata costrutto socio-culturale a maggior ragione in tempi di coronavirus, fa brand stretching (Fabris, 2009). Esce fuori dal contesto naturale in cui vive e prolifera per allungare la propria funzionalità sociale, per ridefinire la propria spendibilità verso percorsi di significato inediti anche se molto radicati nel contesto delle emozioni pandemiche. Ciò che avviene per il tramite della pubblicità è la costruzione non del migliore dei mondi possibili, ma certamente di un mondo possibile, specie nell’era che registra il primato dell’immateriale sul materiale (Semprini, 2006). Sia ben chiaro: si tratta di un mondo diverso da quello che abbiamo vissuto prima di entrare in guerra (metafora assai discutibile) con il nemico invisibile o prima di provare a curarci dal virus (espressione molto più sostenibile, anche se esito ancor più evidente della medicalizzazione semantica). Non sfuggirà che quella che stiamo vedendo è una stimolante esondazione dei Brand in direzione della quotidianità emergenziale, secondo una traiettoria in linea con programmi di corporate social responsability e sostenibilità ambientale ed in piena continuità con le logiche di costruzione e stabilizzazione della brand reputation sul presupposto della brand identity e della brand image.Tutto ciò è ancor più vero se si considera il fatto che la dinamica evolutiva si colloca all’interno degli spazi ampi e poliformi del marketing 4.0 (Kotler, 2018) in base ad uno schema che sfrutta, e al tempo stesso valorizza, il potenziale delle relazioni connesse tipico della platform society (van Dijck, Poel, De Waal, 2019). Una conferma in tal senso arriva dalla ricerca effettuata dal Data Lab di Eni sulla conversazione degli utenti di Twitter intorno ai principali topics e alle principali emotions della Fase 1. Ricerca che in questo articolo viene citata per due motivi. Il primo: alcuni risultati sono degni di menzione. Il secondo: ai fini dell’evidenziazione dei nuovi modelli di marketing, viene confermata la propensione delle imprese a prender parte al discorso pubblico, producendo dati, segnalando trend, assolvendo in una sola espressione al ruolo di istituzione sociale che sa andare al di là del proprio business. Tra i risultati di questa ricerca che colpiscono di più vi è l’ampia diffusione di contenuti relativi alla cultura, parola da proporre in queste pagine nell’accezione più ampia possibile ovvero come universo di conoscenze conoscibili. Insieme a quello assai noto #andràtuttobene utilizzato dalla comunicazione di massa e da quella interpersonale nelle molte manifestazioni spontanee organizzate sui balconi in quanto spazi concepibili come nuova sfera pubblica mediata, si registra la presenza di altri hashtag interessanti: #laculturanonsiferma, #ioleggoacasa, #food, #cucinaitaliana. Si tratta di un acquario semantico molto vasto nel quale navigano non pochi significanti saussuriani che la pubblicità ha recuperato, ricorrendo a soluzioni in linea con il sentimento generalizzato della popolazione.
In queste giornate di distanziamento fisico (ma non sociale) il marketing si sta facendo sempre più real-time marketing. Recepisce, elabora, produce strategie e soluzioni che sappiano rispondere con tempestività ed adeguatezza agli umori, agli stati d’animo, alle preoccupazioni, alle passioni, alle sfide, agli stimoli (talvolta disordinati) che arrivano dall’esterno. Reattività e creatività sono due punti di forza di questa tipologia di marketing. I contenuti sono immersi nell’attualità, si nutrono di vettori del senso maturati nella dimensione reale, vivono dell’ambito spazio-temporale in cui i Brand operano. È quello che è stato definito (Scott, 2011) con l’etichetta di newsjacking. I Brand “agganciano” la notizia non solo per aumentare la propria awareness, la propria attitude e condizionare così la purchase intention dei consumatori, ma anche per stazionare dentro il flusso. Stazionare, però, avendo qualcosa da dire e da raccontare. Stazionare per contribuire alla gestione del presente e alla costruzione del futuro, per generare engagement nel pubblico rafforzando il senso d’appartenenza alla propria community di riferimento. Il digital touch diventa strumento per alimentare il bisogno di physical touch. È quello che emerge chiaramente analizzando gli spot pubblicitari che gli utenti della televisione e del web stanno fruendo in queste giornate di lockdown, totale o parziale. È una narrazione che si nutre del ricorso a figure retoriche di sicuro impatto emotivo perché, indipendentemente dalle industry di riferimento, esse sono capaci di attivare l’intera meccanica del riconoscimento e dell’identificazione: il singolo individuo che, isolato, si “materializza” nel gruppo; il gruppo che fa sentire la sua presenza negli anfratti del dialogo che si sviluppa tra l’io locatore e l’io ascoltatore secondo le leggi della comunicazione intra-personale (Benveniste, 1985). Uno storytelling, insomma, che sfrutta il contesto, che sottolinea il dovere della distanza fisica, per disegnare una traiettoria di senso in grado di presidiare l’”hic et nunc” e guardare nel contempo al “postquam”. Uno storytelling che prova a trasformare in frame la difficoltà ed il desiderio di ripristino di una normalità, senza però domandarsi se davvero è il caso che essa venga recuperata e se è ciò che effettivamente vogliamo di più. Si prova a tematizzare il dolore e la voglia di riscatto, creando un ponte semantico tra le aspettative individuali e collettive e la value proposition delle diverse aziende, in grado ormai di utilizzare con disinvoltura media owned, media paid e media earned per portare avanti le proprie strategie di corporate communication. Le parole chiave intorno alle quali si costruiscono le soluzioni di brandtelling (Giorgino, Mazzù, 2018), ovvero di rappresentazione del valore del Brand, sono quelle che usiamo ogni giorno. Sono quelle che vorremmo che tutti usassero, sulla spinta di un bisogno di relazionalità sviluppatosi soprattutto come antidoto alla paura e all’isolamento forzato.
Nella comunicazione pubblicitaria sono stati rimodulati e rinegoziati concetti di base come la compresenza fisica (nel linguaggio delle scienze della comunicazione si tratta di uno dei temi affrontati dall’aptica e dalla prossemica), la condivisione, la programmazione. Avviene per alcune pratiche quotidiane come il mangiare al ristorante, il viaggiare, il partecipare agli eventi, il fare la spesa, il passeggiare per strada, il fare attività motoria, ma anche per progetti più ambiziosi. Sospesi come siamo tra il mondo reale (quello del Covid-19) ed il mondo desiderato (quello appunto di una ritrovata normalità o di una “normalità altra”), che per le imprese significa anzitutto superamento dello shock da domanda ed offerta, i Brand hanno scelto una via di mezzo. Hanno parlato alle famiglie, alla politica e all’economia in quanto modelli organizzativi. Hanno conversato con la società in quanto sistema complesso. Hanno fatto leva sui codici della coesione sociale nella consapevolezza di essere (o almeno di apparire) arme letali contro l’individualismo libertario, per dirla con Beck.
Si sono appoggiati sulle categorie della resilienza e della resistenza, sul valore del lavoro svolto in condizioni di pericolo, sul rapporto di collaborazione tra dipendenti e management aziendale, sulla centralità della famiglia in quanto terreno solido da contrapporre a quello (giocoforza) più fragile della società pandemica. Hanno fotografato l’esistente, ma senza rinunciare a dispensare consigli a tutti e a ciascuno su come comportarsi nel concreto (Eni).
Hanno sottolineato il valore della tecnologia e della connessione come strumento indispensabile per perseguire l’obiettivo della comunicazione, cioè della vera condivisione di senso e non solo del semplice trasferimento di risorse cognitive ed emozionali (Tim). Hanno sollecitato gesti di generosità e creato attenzione verso importanti campagne sociali già in atto (Foxy). Si sono appellati al valore dell’identità nazionale (Ferrarelle) e trasformato la nostalgia in energia per intrattenerci, farci riflettere, indurci a comportamenti responsabili ed etici. Sono diventati artefici, talvolta anche inconsapevoli, della costruzione dei palinsesti mediali, visto che i loro racconti sul valore dell’impresa si sono intrecciati con i contenuti delle lunghe dirette on air ed on line e visto che gli stessi si sono mescolati con le parole pronunciate a tutte le ore del giorno e della notte da virologi, medici, infermieri, politici e politologi, economisti, opinionisti, tuttologi. Un po’ meno (e non per colpa loro, in verità) dai sociologi. Vediamo, allora, come questo nuovo (e al tempo stesso vecchio) orizzonte di senso abbia fatto ingresso in contesti già molto provati da una comunicazione di crisi che ha ottenuto sì alcuni risultati, ma che ha anche dimostrato di essere a sua volta in crisi poiché autoreferenziale e troppo appiattita su quella che la linguistica chiamerebbe “funzione espressiva” (Jacobson, 2002).
Nella pubblicità si assiste alla messa in scena della quotidianità maturata nelle mura domestiche. Mura proposte dalle imprese non come un limite, al contrario come l’opportunità di attivare una rinegoziazione dei significati pandemici nel perimetro delle dinamiche oppositive di interno/esterno, basso/alto, stretto/largo, corto/lungo, negativo/positivo (Febal, Monini). Del resto, l’importante è insinuarsi dentro la costruzione di una nuova routine, anche se non sappiamo ancora quanto durerà e come essa verrà riprogettata. È come se quell’effetto wow del marketing e dell’advertising online ed offline fosse stato “frizzato” in attesa del secondo tempo di una partita di calcio da giocare, però, con schemi tattici diversi. Il tone of voice non è cambiato molto, anche se è cambiato il ricorso a set, keywords, protagonisti, influencer. Negli spot sono stati coinvolti dipendenti e collaboratori delle aziende sulle cui spalle è spesso ricaduto il peso della rappresentazione in salsa epica di questa “guerra” al virus. Sono stati coinvolti gli italiani affacciati da finestre e balconi proposti dai Brand come “porta bandiera” della rivoluzione del buon senso e della cultura della responsabilità (Barilla, Esselunga, MD, Carrefour), quelli che lavorano nell’ombra e nel silenzio assecondando le trame imposte dallo “spirito tenace” di questo tempo (La Molisana), quelli che hanno trasformato la cucina di casa nel principale hub esperienziale (Star). Sono stati coinvolti gli utenti delle piattaforme digitali raffigurati dentro i quadratini minuscoli e colorati delle videoconferenze cresciute di numero in modo coerente alle logiche della “prosumerizzazione” (Vodafone e Mulino Bianco) ed i testimonial simbolo della resilienza sportiva, ovvero di quelle sfide without limits che consentono di raggiungere risultati straordinari con la sola forza della volontà (Bmw). Sono stati coinvolti i componenti di gruppi distanziati fisicamente nella realtà (scenica e non), ma uniti dalla consapevolezza della forza del ciclo della vita che sa distribuire la propria presenza in ogni dove, in ogni età, in ogni gender (Axa). Si è fatto ricorso all’effetto heritage non tanto in chiave di legacy quanto come struttura evocativa su cui edificare futuro e sogno (Lavazza), partendo da una cultura sedimentata nell’immaginario collettivo e collocata in un “altrove diacronico”. Cultura sintetizzabile soprattutto con il lemma “buongiorno”, che precede l’espressione assai impegnativa di “umanità ritrovata”: entrambi grimaldelli funzionali all’esternazione dell’aspirazione a realizzare progetti di rivitalizzazione antropologica necessari di fronte alle cicliche ferite della storia.
In definitiva, si è trattato e si tratta di un’attività di riempimento di vuoti, di una proposta di soluzioni rispetto ai problemi di tutti i giorni. Attività che sono state svolte dentro e fuori i recinti della pubblicità, come avvenuto per esempio con quelle aziende (Lardini) che, da subito, hanno finalizzato la propria produzione tessile alla realizzazione di migliaia di mascherine al giorno, da donare gratuitamente alla popolazione. Iniziative sviluppatesi per la generosità di imprenditori e manager e poi trasformate da creativi ed agenzie di comunicazione in branded contents, ovvero in prodotti di content marketing. Sono tutte dimostrazioni del bisogno di operare radicandosi alla realtà ma per distanziarsene prima possibile, stando almeno al livello motivazionale. E non importa se si rischia il trionfo della retorica o l’omologazione di forme espressive e messaggi. Non è un caso, del resto, che in una ricerca realizzata recentemente da Lorenzo Marini Group sulla scia dei paradigmi della psicolinguistica sia emerso che solo il 30% di italiani accetta incondizionatamente la logica dell’ordine e della razionalità narrativa, quella logica cioè che promana delle evidenze empiriche così come emergono dal solo ambiente reale piuttosto che dal combinato disposto ambiente reale/ambiente simbolico. Il 67%, invece, cerca la rimozione della realtà. Come dire: non mi interessa tanto vedere ciò che è o ciò che vedo con i miei occhi, quanto vedere ciò che vorrei che fosse e/o ciò che ancora non riesco a vedere. Attenzione, però. Quella che qui si sta mettendo in evidenza è solo apparentemente una contraddizione. La pubblicità ha sempre svolto una funzione di stabilizzazione psicologica. Ciò che non funzionerebbe mai nella situazione ordinaria, performa bene nella straordinarietà e nell’eccezionalità delle condizioni umane, soprattutto perché agevola l’evasione da una fattualità negativa, pur originando da essa. Detto in altri termini: la pubblicità può anche partire dalla fotografia dello status quo, ma deve sempre fare in modo che il piano della narrazione diventi la pista in cui far decollare bisogni e desideri dei consumatori e nel contempo quella in cui far atterrare le proiezioni strategiche e prospettiche dell’impresa. Tutto sommato, si tratta di una forma catartica rispetto alla quale la documentazione della realtà non può non essere affiancata dal potere immaginifico, così come liberato dall’inventiva dei creativi. Erich Fromm lo aveva capito già molti anni fa quando sostenne che la maggior parte della pubblicità non si appella tanto alla ragione, quanto all’emozione e alle emozioni. E sappiamo quante sono quelle in circolo in questo anomalo 2020. È anche per questo motivo che il newsjacking sta funzionando. In fondo, il real time marketing altro non è che una miscela di pragmatismo ed astrazione: si parte dal primo per arrivare alla seconda. Una miscela che, tuttavia, ha bisogno di percorrere sentieri inesplorati se si vuole che la pubblicità continui ad essere, come diceva McLuhan, una delle più grandi forme d’arte del nostro tempo. Utile soprattutto alla società dei consumi. Ca va sans dire.
Bibliografia
J. Baudrillard, Per una critica dell’economia politica del segno, Mimesis, Milano-Udine, 2012
E. Benveniste, Problemi di linguistica generale, il Saggiatore, Milano, 1985
V. Codeluppi, Il potere della marca, Bollati Boringhieri, Torino, 2012
G. P. Fabris, Societing, Egea, Milano, 2009
F.Giorgino, M. F. Mazzù, BrandTelling,Egea, Milano, 2018
R. Jacobson, Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano, 2002
P. Kotler, Marketing 4.0, Hoepli, Milano, 2017
M. Mauss, Saggio sul dono, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2002
D. Meeerman Scott, Real-Time Marketing & Pr, Hoepli, Milano, 2011
A. Semprini, La marca postmoderna, FrancoAngeli, Milano, 2006
J. van Dijck, T. Poell, M. De Waal, Paltform society. Valori pubblici e società connessa, Guerini Scientifica (edizione italiana a cura di G. Boccia Artieri, A. Marinelli), Milano, 2019